Con il nome di «Test di Turing» si intende, in realtà, il cosiddetto imitation game, ovvero «gioco dell’imitazione». 

Tale “gioco” venne teorizzato al fine di poter intendere se una macchina potesse mostrare un comportamento definibile intelligente.

Fu appunto Alan Turing, talentuoso e geniale matematico e crittografo britannico, a parlare per primo di imitation game (come criterio per stabilire se una macchina potesse avere intelligenza) nell’ormai leggendario articolo Computing machinery and intelligence, apparso sulla rivista «Mind» (Turing 1950).

Reso celebre dalla premiata pellicola The Imitation Game (2014), il lavoro di Alan Turing è assolutamente pionieristico, al punto che Turing viene considerato il padre dell’informatica e dell’intelligenza artificiale.

Non ci addentreremo sulla complessa formulazione dell’imitation game per come è stato proposto da Turing – infatti, sono stati proposte anche modifiche al Test di Turing, come la stanza cinese di John Searle, il Test di Turing inverso (test Swirski) o quelli basati sulla complessità di Kolmogorov (Searle 1980; Kolmogorov 1998)

Limiteremo il nostro interesse alla domanda che Turing pone, sin dall’inizio, al lettore dell’articolo Computing machinery and intelligence:

«I PROPOSE to consider the question, ‘Can machines think?’»

Effettivamente, la domanda che Alan Turing si pose esattamente settantuno anni fa rifletteva un approccio ai problemi della computazione incredibilmente rivoluzionario e visionario.

Eppure, al di là del fatto che tuttora in molti (in seno alla community dei computer scientist e dei cognitivisti) si chiedono se mai realmente una macchina supererà il Test di Turing, forse la formulazione del quesito rischia di essere oggi non del tutto completa.

Anche in virtù dei progressi delle scienze cognitive nelle indagini dei meccanismi alla base del nostro pensiero e della nostra mente, si possono formulare le seguenti considerazioni.

Nell’ormai lontano 2014, Marco Cattaneo, sul Blog de «Le Scienze» (Edizione italiana di «Scientific American»), arriva addirittura a sostenere – calcando indubbiamente la mano – che il Test di Turing è stato frutto di una concezione naïve dell’intelligenza:

«Il test di Turing, insomma, è figlio di un’era in cui pensavamo che il cervello fosse assimilabile a una macchina per il calcolo. È figlio di un’idea ingenua di intelligenza».

Intelligenza, «Che non è una stringa di istruzioni, ma un complesso di segnali sensoriali che modificano l’architettura stessa del cervello» (Cattaneo, 2014). E, in effetti, le neuroscienze stanno rivedendo la portata delle teorie computazionali a livello di psicologia cognitiva (Fodor 2004).

Al di là delle diatribe esistenti fra le varie correnti cognitiviste, il problema, in realtà, è che ancora nessuno è stato in grado di definire che cosa realmente si intenda per pensiero e per intelligenza, due parametri cardine della domanda posta da Turing.

Perché una macchina pensante dovrebbe mostrarci il suo pensiero? Perché, invece, non dovrebbe o non potrebbe dissimularlo?

Per troppo tempo si è considerata l’intelligenza come sola capacità di risolvere problemi astratti, matematici e logici; e, parimenti, come la capacità che più ha permesso all’homo sapiens di sopravvivere.

Se realmente val la pena di riprodurre la mente e l’intelligenza umana, questa ambizione non può prescindere dal riprodurne anche le pulsioni, le attitudini, gli istinti.

Concetti, questi, per lungo tempo, ritenuti estranei alle scienze cognitive e confinati all’etologia – come ad esempio i brillanti studi di Charles Darwin e di Irenäus Eibl-Eibesfeldt (Darwin 1972; Eibl-Eibesfeldt 1971).

Non solo, però, sono importanti emozioni e pulsioni (negative o positive che siano), ma anche l’ingegnosità nel modulare queste a proprio vantaggio.

Nello studiare il comportamento delle scimmie antropomorfe, il primatologo Frans de Waal parlò di “Machiavellian Intelligence”, notando come comportamenti auspicati e teorizzati da Niccolò Machiavelli, soprattutto ne Il Principe (1532), fossero tenuti pure dai primati.

E fiorirono ipotesi, ancora oggetto di dibattito, che queste spregiudicate tattiche machiavelliche di sopravvivenza fossero alla base dell’aumento di intelligenza che differenzia primati da umani, a seguito di decine di millenni di competizione (Waal 1982; Byrne, Whiten 1990; Vose, Gavrilets 2006).

La “Machiavellian Intelligence” è, appunto, un’ipotesi multidisciplinare che, se trattata approfonditamente, esulerebbe qui dai fini preposti di trattazione: semplicemente, è sufficiente affermare che il concetto di intelligenza è molto più complesso di quanto si pensasse ai tempi di Turing, dal punto di vista teorico, e che questo medesimo è strettamente interconnesso al concetto di strategia.

Il quale, a sua volta, secondo Sun Tzu, è relazionato alla dissimulazione, all’inganno, all’astuzia. Per Clausewitz, invece, «l’astuzia è un gioco di prestigio per mezzo di azioni, come l’ironia è un’illusione in fatto di idee» (Sun Tzu 2009; Clausewitz 1982).

Alla luce di queste volute digressioni, potrebbe forse essere avanzato il dubbio se abbia ancora senso porre la citata domanda di Turing nei termini in cui egli l’ha formulata.

Oppure riproporla nuovamente secondo un nuovo punto di vista, ovvero se le macchine possano avere una strategia, siano dotate di astuzia, etc.

Il lettore potrebbe rispondere portando come controprova della capacità strategica delle macchine gli straordinari e incredibili successi raggiunti, ad esempio, da DeepMind nell’approcciarsi a giochi senza dubbio complessi come gli scacchi e go.

Eppure, se davvero la macchina avesse questo profondo senso strategico, perché dovrebbe agire così, senza una reale strategia, ostentando le sue capacità e non dissimulandole?

In altri termini, se una macchina fosse veramente così intelligente da batterci in intelligenza, assai difficilmente potremmo accorgercene, essendo che questa, con fine astuzia, ben si guarderebbe dal farci sospettare le sue reali intenzioni di dominio.

Ovviamente sono tutte speculazioni – che, oltretutto, potrebbero portare a dilemmi etici, già a più riprese sollevati da esperti del settore.

Sarà sufficiente riconoscere, quindi, in fondo, i limiti della conoscenza che si ha dell’intelligenza umana e, più in generale, delle funzioni mentali.

Gregory Bateson, non nuovo a provocazioni, scriveva così:

«Il bello e il brutto, il letterale e il metaforico, il sano e il folle, il comico e il serio… perfino l’amore e l’odio, sono tutti temi che oggi la scienza evita. Ma tra pochi anni, quando la spaccatura fra i problemi della mente e i problemi della natura cesserà di essere un fattore determinante di ciò su cui è impossibile riflettere, essi diventeranno accessibili al pensiero formale» (Bateson 1989)

A decenni dalla formulazione di tali riflessioni, forse si intravede la possibilità che, davvero, tali concetti possano essere formalizzati e contribuiscano a una più corretta definizione di intelligenza, umana e artificiale.

References

Bateson G. (1989), Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Milano: Adelphi.

Byrne R. W., Whiten A. (1990) Machiavellian Intelligence: Social Expertise and the Evolution of Intellect in Monkeys, Apes, and Humans, Behavior and Philosophy 18 (1), pp. 73–75.

Clausewitz, K. von (1982), Della guerra, Milano: Mondadori

Darwin C. (1872), The Expression of the Emotions in Man and Animals, London: John Murray.

Darwin C. (1982), L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Torino: Boringhieri.

Eibl-Eibesfeldt I. (1971), Amore e odio. Per una storia naturale dei comportamenti elementari, Milano: Adelphi.

Fodor, J.A. (2004), La mente non funziona così. La portata e i limiti della psicologia computazionale, Roma-Bari: Laterza.

Kolmogorov, A. (1998). On Tables of Random Numbers, Theoretical Computer Science, 207 (2), pp. 387–395.

Searle, J. R. (1980) Minds, brains, and programs, Behavioral and Brain Sciences 3(3), pp. 417-457.https://www.law.upenn.edu/live/files/3413-searle-j-minds-brains-and-programs-1980pdf

Sun Tzu (2009), Arte della guerra in Breccia G. (ed.), L’arte della guerra da Sun Tzu a Clausewitz, Torino: Einaudi, pp. 5-32.

Turing A. (1950), Computing machinery and intelligence, Mind, 59(236),  pp. 433–460. https://academic.oup.com/mind/article/LIX/236/433/986238

Vose A., Gavrilets S. (2006), The dynamics of Machiavellian intelligence, Proceedings of the National Academy of Sciences, 103 (45), pp. 16823–16828

Waal, F. de (1982). Chimpanzee Politics: Power and Sex Among Apes, Baltimore:The John Hopkins University Press.