Autrice: Alessia Guarnaccia
Il significato e lo scopo della vita è la felicità, diceva Aristotele (Etica Nicomachea). I Greci, nell’antichità, chiamavano la felicità, εὐδαιμονία (eudaimonìa), una parola che indica etimologicamente la “buona realizzazione del δαίμων (dàimōn)” che ogni individuo ha dentro di sé; un significato che richiama quel tipo di benessere collegato all’espressione e alla maturazione delle proprie capacità, abilità (U. Galimberti).
Il δαίμων (dàimōn), un’entità che si erge verso il divino, rappresenta la vocazione dell’anima umana, la sua autentica natura e presiede al suo specifico destino. «Non sarà un dàimōn a scegliere voi, ma sarete voi a scegliere il vostro dàimōn…Chi è stato sorteggiato per primo, per primo scelga la vita alla quale sarà necessariamente congiunto. La virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà in misura maggiore o minore a seconda che la onori o la disprezzi. La responsabilità è di chi ha fatto la scelta; la divinità è incolpevole» (Platone, Repubblica – Libro X – il mito di Er).
La virtù (ἀρετή – aretè) comprendeva, per i greci, il significato di abilità, capacità.
Il percorso per “tirar fuori”, costruire, modellare le proprie abilità, capacità, conoscenze è il fine, e nello stesso tempo il ruolo, dell’educazione per l’uomo.
Oggi è sempre più diffusa la consapevolezza che l’educazione è un “diritto umano fondamentale”, cognizione che sottende a propositi strategici volti allo “sviluppo di sistemi educativi inclusivi e di qualità, rispettosi dell’uguaglianza di genere e che offrano possibilità di apprendimento per tutti, durante il corso della vita.” (UNESCO)
Anche l’ ”Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” delle Nazioni Unite contempla tra i suoi obiettivi (Sustainable Development Goals, SDGs) quello relativo al perseguimento di “un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” (Goal 4. Quality Education), ponendo ambiziosi “traguardi da raggiungere soprattutto nei Paesi meno avanzati e in quelle aree marginalizzate dei Paesi ad economia maggiormente sviluppata”. Inoltre, nell’ambito della citata Agenda 2030, l’educazione è ritenuta strategica per il conseguimento anche di altri scopi, come quelli riguardanti il lavoro dignitoso e la crescita economica, il consumo e la produzione responsabile, l’eguaglianza di genere, la salute, la risoluzione dei cambiamenti climatici.
Il proposito di inclusione educativa, integrato in valori legati alla democratizzazione della formazione e alla giustizia sociale, è uno degli aspetti che caratterizza il cosiddetto movimento Open Education, delineatosi a partire dal periodo in cui sono maturati o sono stati ripresi concetti come l’Open Knowledge, Open source, Open Data, Open access, Open Science, Open collaboration, Open Standard…
Elementi intrinsecamente collegati all’interpretazione delle origini e degli sviluppi del movimento Open Education, sono principalmente: le Open Educational Resources (OER), l’idea delle licenze aperte, i Massive Open Online Courses (MOOC), le Open Educational Practices (OEP).
Le Open Educational Resources (OER), dopo varie evoluzioni della definizione del termine nel corso del tempo, ad oggi indicano “materiali di apprendimento, insegnamento e ricerca in qualsiasi formato e mezzo che risiedono nel pubblico dominio, o sono sotto il diritto d’autore, che sono stati rilasciati sotto una licenza aperta, che consente l’accesso a costo zero, il riutilizzo, la riconversione, l’adattamento e la ridistribuzione da parte di altri” (Recommendation on Open Educational Resources – UNESCO 2019).
La Raccomandazione dell’UNESCO (2019) fornisce anche una definizione di Open license intesa come licenza che “rispetta i diritti di proprietà intellettuale del proprietario del copyright e fornisce permessi che garantiscono al pubblico i diritti di accesso, riutilizzo, riconversione, adattamento e ridistribuzione di materiali educativi”. Proprio l’idea di definire tipologie di licenze che contemplassero aperture, di vario livello, a “manipolazioni” di materiali utili all’acquisizione e divulgazione della conoscenza, è stata alla base della diffusione, nel tempo, delle OER. Le più rilevanti tra queste licenze sono le cosiddette Creative Commons (CC) (2002), sviluppatesi in quella corrente avviata da progetti come, nello specifico ambito del software, GNU General Public License (GNU GPL) (1989).
Sono poi le Information and communications technology (ICT) in genere, ad essere riconosciute quali portatrici di un “grande potenziale per un accesso efficace, equo ed inclusivo alle OER”, rendendo queste ultime potenzialmente praticabili “sempre e ovunque per tutti, compresi gli individui con disabilità e quelli provenienti da gruppi emarginati o svantaggiati”, contribuendo a soddisfare le esigenze dei singoli studenti, oltre che potendo “promuovere efficacemente la parità di genere e incentivare approcci pedagogici, didattici e metodologici innovativi”. (UNESCO 2019).
L’espansione e il potenziamento globale dell’infrastruttura ICT è stata alla base anche dello sviluppo dei cosiddetti Massive Open Online Courses (MOOC), corsi di istruzione superiore fruibili online, potenzialmente raggiungibili da un numero “massivo” di studenti provenienti da tutto il globo, progettati in modo da contemplare l’utilizzo sia di materiali didattici costruiti come OER, sia di pratiche educative open. L’enorme affermazione dei MOOC ha anche avviato un’interpretazione più propriamente commerciale degli stessi, dando vita, nel corso del tempo, a vari modelli di business nel settore dell’e-learning e relative aziende di successo (una linea di sviluppo che ha sollevato un animato dibattito nell’ambito del movimento Open Education).
Un ulteriore concetto, importante per la costruzione del complessivo quadro di riferimento, è rappresentato dalle cosiddette Open Educational Practices (OEP) che si focalizzano sullo studio e sviluppo di quegli “approcci pedagogici, didattici e metodologici innovativi”, capaci di esaltare le potenzialità delle OER di cui sopra.
A significare quanto sia fondante, per la comunità tutta, la costruzione di nuovi modelli educativi, rispetto agli stakeholders interessati, la Raccomandazione dell’UNESCO (2019) fa esplicito riferimento ad una grande varietà di soggetti potenzialmente coinvolti (“insegnanti, educatori, discenti, organismi governativi, genitori, istituti di formazione e istituzioni educative, personale di sostegno all’istruzione, formatori degli insegnanti, responsabili delle politiche educative, istituzioni culturali – quali biblioteche, archivi e musei – e loro utilizzatori, fornitori di tecnologie ICT, ricercatori, istituti di ricerca, organizzazioni della società civile, editori, settore pubblico e privato, organizzazioni intergovernative, titolari di diritti d’autore e autori, media e gruppi radiotelevisivi, organismi finanziari”).
La Raccomandazione richiama, inoltre, esplicitamente, i possibili settori di applicazione delle risorse strumentali e metodologiche “open”, riferendosi oltre che a contesti di apprendimento cosiddetti formali (i sistemi educativi ufficialmente intesi, dunque quelli istituzionali come la scuola, l’università etc.), anche a contesti chiamati non formali (promossi da istituzioni extrascolastiche a carattere culturale come musei, biblioteche, agenzie formative private etc.) e quelli cosiddetti informali, relativi a quanto può essere appreso, in maniera spontanea, con esperienze di vario tipo nell’ambito di lavoro, familiare o del tempo libero (Bjornavold, 2001; Cross, 2006).
L’allargamento delle tipologie dei contesti di apprendimento è collegato all’attuale consapevolezza della necessità di interrogarsi su quali siano le infrastrutture e le metodologie più adatte a fungere da supporto al cosiddetto “upskilling” (inteso come “il migliorarsi attraverso il processo di apprendimento di nuove competenze”) e “re-skilling” (nel senso di “riqualificarsi mediante l’acquisizione di nuove abilità”) che oggi, per le persone, necessariamente deve essere continuo e condotto per tutta la propria vita (“lifelong-learning”).
Oggi viviamo la cosiddetta “Società della conoscenza” (già invocata come obiettivo nel 2000, durante il Consiglio d’Europa di Lisbona) a sottolineare il ruolo che, in essa, il sapere assume dal punto di vista economico, sociale e politico: una centralità fondamentale per una comunità che scelga di fondare la propria crescita e competitività sulla conoscenza, la ricerca e l’innovazione.
Per affrontare le sfide della modernità, serve, come anticipava Edgar Morìn, la capacità di una testa ben fatta. «E’ meglio una testa ben fatta che una testa ben piena» – ricordava Morìn riprendendo la celebre frase di M. Montaigne. «Cosa significa “una testa ben piena” è chiaro; è una testa nella quale il sapere è accumulato, ammucchiato, e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso». Una testa ben fatta ha naturalmente un’«attitudine generale a porre e trattare i problemi; principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso» (E. Morìn). E’ meglio un corretto approccio alla conoscenza, piuttosto che il possesso di innumerevoli nozioni, con il solo scopo di riempire la mente e costruire questa capacità è la grande sfida dell’educazione e della nostra comunità.
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