A livello cinematografico, siamo abituati a immaginare un’intelligenza artificiale forte – o, più correttamente, AGI, «Artificial General Intelligence» – come un’entità distante e distaccata nella comunicazione. Con voce priva di articolazioni ritmiche o eufoniche e invece incline al ragionamento freddo e astratto, essa è però dotata ma al tempo medesimo di straordinarie capacità cognitive.

Sia essa immortalata nei panni robotici di un cyborg (come non citare la saga di Alien o di Terminator?) o in quelli ancor più astratti di un sistema computerizzato (su tutti, HAL-9000 in 2001: Odissea nello spazio), questa ipotetica AGI risulta spesso troppo “artificiale” e differente dall’essere umano – vera macchina prodigiosa.

Ovviamente questa immagine quasi “metallica” e anaffettiva dell’AGI è anche frutto di artifici cinematografici e televisivi che hanno voluto sottolineare l’artificiosità delle macchine e della loro vera o presunta intelligenza. Artifici che hanno però esercitato una notevole influenza sull’immaginario collettivo.

A tal proposito, anche nel campo delle neuroscienze, vi sono stati ricercatori e influenti pensatori che hanno identificato l’intelligenza non solo nella straordinaria capacità cognitiva e computazionale (come proprie di molte AGI artistiche e cinematografiche), ma anche e soprattutto nella loro abilità e nelle loro skill emotive e comunicative.

Come spesso, infatti, accade, il ragionamento out of the box – il pensare al di fuori degli schemi –  permette incrementi notevoli nella conoscenza e nel sapere: in questa direzione ha proceduto Antonio Damasio, neuroscienziato portoghese, docente in prestigiose università americane.

Ribaltando le concezioni fino a poco tempo fa dominanti, ha evidenziato, in tutta la sua vasta opera e produzione divulgativa e scientifica, come emozioni e ragione siano indistinguibili, inscindibili e, in ultimo, inestricabili (Damasio, 1995; Damasio, 2000).

Sfidando idee radicate da secoli nel pensiero occidentale (che vedeva la ragione come superiore alle emozioni), ha aperto probabilmente nuove frontiere nello studio della mente, dell’intelligenza e della coscienza.

Sì, perché, senza comprendere bene anche solo cosa si intende con questi tre termini (mente, intelligenza e coscienza), difficilmente saremo in grado di replicarne davvero le caratteristiche in maniera artificiale. D’altronde, c’è chi ha detto che abbiamo una teoria del cervello, ma non una della mente.

E, infatti, il futurologo e direttore dell’ingegneria in Google Raymond Kurzweil (in un po’ tutto il suo lavoro di futurist) ha giustamente sostenuto la necessità di operare una retro-ingegnerizzazione della mente, dell’intelligenza e della coscienza, se poi si vuole accedere a una riproduzione in quello che chiamiamo macchina  (Kurzweil, 2008; Kurzweil, 2013).

E questo però non può avvenire ignorando tutti quei meccanismi psicobiologici, fisiologici, cognitivi e “viscerali” che comunemente sono designati come “emozioni”.

Se sugli schermi, grandi o piccoli, sono state rappresentate AGI sprovviste di emozioni (e delle loro espressioni facciali e vocali), molto probabilmente l’umanità assisterà all’avvento di AGI facilmente in grado di provare ed esprimere emozioni – secondo taluni, vero medium della metacomunicazione umana.

Sempre citando Kurzweil, la singolarità tecnologica è indubbiamente vicina. Ma, a nostro avviso, le strade per raggiungerla sono molteplici, alcune più lunghe, altre più brevi. E, forse, la via che indaga anche i meccanismi e le circuitazioni neuronali alla base dei processi e dei regolamenti delle emozioni (e delle espressioni di queste) potrebbe essere quella corretta. D’altronde, i recenti investimenti nel campo dell’Affective Computing sembrerebbero poter confermare ciò.

Evidentemente, a seguito anche dei progressi nel campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive, anche il cinema si è, di conseguenza, adeguato a tutto questo. Basti, in tal senso, citare la serie sci-fi di grido Westworld – Dove tutto è concesso (a sua volta ripresa da un film di Michael Crichton del 1973). Qui, i robot sono indistinguibili dagli esseri umani e proprio le loro emozioni e le loro memorie saranno ciò che, a furia di amnesie, déjà vu, dissociazioni cognitive, etc., porteranno loro all’autocoscienza – uscendo da una caverna che immediatamente evoca l’ombra di Platone – ed alla ribellione di esse, con conseguenze drammatiche.

Retro-ingegnerizzare la mente, quindi – Kurzweil docet. O, sulla falsariga del chimico e filosofo britannico-ugherese Michael Polanyi, comprendere come comprendiamo: al fine di ricreare mente, intelligenza e coscienza (Polanyi, 1990). E quando l’umanità giungerà a ciò, lo farà creando qualcosa che, ai nostri occhi, di artificiale avrà ben poco e molto di “naturale”.

In fondo, si tratta, citando Westworld, di capire dove è il centro del labirinto. O, se il lettore preferisce, invece, una citazione (chiaro riferimento a Lewis Carroll e al suo Alice in Wonderland) del capolavoro delle sorelle Wachowski, Matrix, di intuire «quanto è profonda la tana del bianconiglio».

References:

Damasio A. (1995), L’Errore di Cartesio, Milano: Adelphi.

Damasio A. (2000), Emozione e coscienza, Milano: Adelphi.

Kurzweil R. (2008), La singolarità è vicina, Milano: Apogeo.

Kurzweil (2013), Come creare una mente, Milano: Apogeo.

Polanyi M. (1990). La conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica, Milano: Rusconi.