Autrice: Alessia Guarnaccia

«Chi è più vero: tu quale vedi te stesso, o te stesso quale gli altri ti vedono?» (Aldous Huxley, 1894-1963).

Le visioni distopiche di autori del passato hanno spesso descritto scenari dove le caratteristiche della psicologia umana erano utilizzate per foraggiare tecniche di condizionamento e di indottrinamento pianificate da soggetti, più o meno palesi, il cui intento era quello di costruire uno strumento di controllo.

Proprio un contesto di manipolazione della psiche è quello tracciato dalle critiche condotte dal documentario “The Social Dilemma”(Jeff Orlowski, 2020) al mondo delle piattaforme di social network. L’espediente narrativo utilizzato vede sia il racconto diretto di varie persone che in passato hanno lavorato alle tecnologie sottostanti alle piattaforme stesse, sia una rappresentazione degli effetti di un uso totalizzante dei social, attraverso la ripresa, in forma di fiction, di alcune dinamiche quotidiane di una famiglia americana con figli più o meno adolescenti.

La questione di fondo che viene sollevata è collegata direttamente al modello di business di queste piattaforme che esige la cattura dell’attenzione delle persone, per quanto più tempo possibile, utilizzando tecniche di “captologia”.

Tra gli intervistati, in particolareJaron Lanierevidenzia come sia semplicistico fermarsi solo alle suggestioni legate alla contezza di essere il prodotto in vendita (“Se il prodotto non lo paghi, vuol dire che il prodotto sei tu”), piuttosto il centro dell’attenzione dovrebbe essere la consapevolezza che la merce di scambio è il cambiamento graduale, leggero, impercettibile del nostro comportamento, della nostra percezione, praticato intenzionalmente dalle piattaforme stesse.

Come viene sottolineato più volte nel documentario, specie da Tristan Harris, la tecnologia persuasiva è un “design volutamente applicato all’estremo, per modificare il comportamento delle persone” verso precise direzioni, perché si vuole che l’utente faccia un gesto particolare, percorra traiettorie prestabilite, partecipi, perlopiù inconsapevolmente, a veri “esperimenti di laboratorio”.

In questo modo cambia la prospettiva di riferimento, si lascia un ambiente tecnologico basato sugli strumenti che attendono di essere usati. Se una cosa è uno strumento, vuol dire che se ne sta lì ad aspettare pazientemente. Se una cosa non è uno strumento, pretende da te delle cose, ti seduce, ti manipola, vuole qualcosa”(Harris). E’ una specie completamente nuova di potere e influenza.

Il focus dell’attenzione proposto verte quindi sulle dinamiche e le conseguenze di un modello di business così concepito che si radica su un tipo di mercato mai esistito prima: “è quello che ogni azienda ha sempre sognato, avere la garanzia che la sua pubblicità avrà successo. E’ questo il business, vendono certezze. Per avere successo in questo settore devi avere ottime predizioni e le ottime predizioni iniziano con un imperativo: servono tanti dati” per decodificare cosa stimoli le risposte degli utenti, predire e veicolarne le reazioni. Viene sottolineato poi come il livello di precisione cresca costantemente per costruire modelli di previsione sempre più performanti, perché in questa gara “chi ha il modello migliore vince”(Shoshana Zuboffin una delle interviste). Viene chiamato “capitalismo della sorveglianza”.

Nel corso del documentario sono poi analizzate alcune manifestazioni indicate come diretta conseguenza del meccanismo sopra descritto (dipendenza, disinformazione/fakenews, polarizzazione delle posizioni, capacità di interferenza in processi elettorali).

L’immagine proposta è quella di un super cervello globale, laddove gli utenti sono neuroni intercambiabili, nodi informatici da programmare manipolandone i comportamenti. Un mondo dove “ogni persona ha la sua realtà con i suoi fatti” e nel tempo, “ti fai l’idea sbagliata che siano tutti d’accordo con te, perché tutti quelli della newsfeed esprimono la tua stessa opinione”; ma se ognuno ha diritto alla propria realtà(filter bubble), “non c’è bisogno di compromessi o di unione tra le persone, non c’è bisogno di nessuna interazione” (R. McNamee), si rinuncia ad una percezione condivisa della realtà. “Siamo una nazione di persone che non si parlano più, persone che non sono più amiche tra loro a causa del voto delle ultime elezioni. Siamo una nazione di persone che si sono isolate a guardare solo canali che ci danno ragione”(M. Rubio – un senatore USA in una delle interviste).

Nella parte finale del documentario si evidenzia come non si voglia proporre una visione unilaterale e pessimistica sulla questione, bensì si intenda sollevare la percezione della necessità di un sistema di regolamentazione il cui onere non sia affidato solo alle singole piattaforme e del bisogno di un dibattito pubblico che aumenti la trasparenza e la conoscenza sull’argomento.

“Mi piace dire che gli algoritmi sono opinioni in forma di codice, sono ottimizzati secondo una certa definizione di successo” (Cathy O’Neil in una delle interviste). “Il modo in cui funziona la tecnologia non è una legge della fisica, si tratta di scelte fatte da esseri umani”.

Dato che la tecnologia si integrerà sempre di più nella nostra vita e la “gara a chi attira di più l’attenzione della gente non finirà”, la spinta è quella di costruire, con atti consapevoli di volontà collettiva, tutte quelle azioni che possano togliere ogni velo di ambiguità su un contesto al momento ambivalente perché “è contemporaneamente utopia e distopia”.

Emerge la necessità di oltrepassare le logiche a breve termine e costruire una dimensione di confronto e condivisione collettiva con obiettivi strategici che in fondo rispondono a quella che può sembrare una domanda utopica “Come si può migliorare il mondo?”.

“Se sarà utopia o oblio, lo deciderà una gara a staffetta fino all’ultimo minuto…” (R. Buckminster Fuller)

L’utopia come orizzonte che spinga all’azione…d’altronde “Il progresso altro non è che il farsi storia delle utopie” (O. Wilde)

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Immagine di StockSnap da Pixabay